LA TELA EGIZIANA

Tranquillo pomeriggio d’estate. Sono in giardino seduto sotto la pergola, con gli occhi socchiusi per il torpore e per il sole. Dall’alto scende un ragno, appeso al suo filo invisibile. Mia figlia sarebbe scappata urlando: aracnofobia. Eppure sono animaletti affascinanti, presenti sulla terra da almeno 300 milioni di anni e che da secoli stimolano la curiosità degli scienziati con misteri come “perché il ragno non gira su se stesso quando è appeso al filo?” (per via della struttura molecolare del filo) e “perché il ragno non resta invischiato nella sua stesa tela?” (il ragno tesse due tipi di filo: appiccicoso e non. Il filo a spirale è appiccicoso, i raggi che partono dal centro no, e lungo questi il ragno può muoversi liberamente).
Il filo della sua tela è talmente sottile e resistente da non avere uguali in alcun filo artificiale. È stato utilizzato da secoli per formare delle linee di grande precisione in certi strumenti ottici come il micrometro. Immaginate un microscopio o una lente in cui volete avere una griglia di fili sottili, ad esempio per misurare quello che vedete. Dato il forte ingrandimento del sistema, dovrete utilizzare dei fili sottilissimi. Ad esempio fili di ragno tesi tra due vetrini. Se ne accorse William Gascoigne, inglese, che, attorno al 1640, mentre stava studiando il cielo con un telescopio, ebbe l’avventura di vedere un ragno scendere di fronte all’oculare (i telescopi all’epoca erano aperti, cioè non contenuti in un tubo). Quindi si accorse che poteva vedere contemporaneamente l’oggetto della sua osservazione e il filo sottile sovrapposto. Sembra che ancora nel 1960, le siepi attorno all’Osservatorio Reale di Greenwich, vicino a Londra, venissero regolarmente saccheggiate delle loro ragnatele.
Ma ancora oggi, con tutto il bagaglio di progresso e fibre artificiali, si utilizzano, nei laboratori, questi fili nella produzione di circuiti elettronici a base ottica. Per produrre dei “canali” in cui far passare la luce si bagnano i fili di ragno in una sostanza plastica, si scaldano, bruciando il filo interno, e – voilà – un tubicino del diametro interno di pochi millesimi di millimetro.
Delle oltre 40’000 specie di ragni solo una è erbivora e tutte sono piuttosto aggressive (mi hanno sempre fatto pena i maschietti di certe specie che vengono divorati dopo l’accoppiamento). Cercate “ragni”, cercate “ottica”, scorrete la pagina con il dito e troverete Spinoza.
Baruch (o Benedict) de Spinoza, ebreo, olandese di origini portoghesi, è stato chiamato il “principe dei filosofi”. Eretico sia per gli ebrei che per i cattolici, fu scomunicato dai primi e dichiarato ateo dai secondi e vide messi al bando tutti i suoi scritti. E in quanto a scomunica, non furono usati mezzi termini: “…Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti…”. E questo a 24 anni: deve avere avuto una bella gioventù!
Lasciando da parte i suoi concetti filosofici, vediamo due aspetti che lo ricollegano ai nostri discorsi. Spinoza, aveva un passatempo particolare: metteva dei ragni in una scatola per vederli combattere a morte oppure e gettava loro in pasto mosche vive per “vedere l’effetto che fa”.
I suoi discepoli raccontano che la cosa lo divertiva “immensamente” facendolo ridere smodatamente fino alle lacrime.
Di mestiere Spinoza faceva il tornitore di lenti, per cannocchiali e microscopi e probabilmente anche per occhiali.
La lente, il cui nome deriva dalla lenticchia (lens culinaris) è antichissima. I nostri antenati devono aver notato molto presto l’effetto di ingrandimento causato da una goccia d’acqua o da una sfera di vetro. Al British Museum è esposta una lente assira di cristallo di roccia proveniente dal palazzo di Nimrud, risalente a 3000 anni fa.
La lente, come strumento utilizzato per ingrandire o per concentrare i raggi solari in un punto (e quindi accendere, ad esempio, un fuoco), appare nei geroglifici egiziani, in una commedia del greco Aristofane (424 ac) e negli scritti di Plinio il Vecchio; e poi in un trattato di ottica arabo, negli scavi di un porto vichingo e così via fino all’introduzione degli occhiali probabilmente nel veneto attorno al 1280 e chiamati poi in volgare: “rodoli de vero per ogli, per lezer”.
Ci vollero ancora secoli per arrivare al microscopio (i primi strumenti vennero probabilmente prodotti in Olanda alla fine del XVI secolo) e al telescopio (inventato quasi contemporaneamente nel 1608 da due costruttori di occhiali olandesi, Hans Lippershey e Zacharias Janssen, e migliorato subito dopo da Galileo). Tutto questo però sempre in modo empirico, senza un’idea chiara sulla natura della luce, sui fenomeni di rifrazione o, nel caso degli occhiali, sull’effettivo difetto della vista del paziente.
E già la luce! Cos’è la luce? Dopo un inizio non molto promettente – i greci ritenevano che la vista fosse il risultato di raggi emanati dagli occhi – furono soprattutto degli studiosi arabi a … intravvedere la luce.
Ibn al-Haytham (965 – 1040), di Basra, odierno Iraq, spiegò la visione come percezione dei raggi riflessi dagli oggetti, inventò la camera oscura e parlò di raggi come di emissioni di particelle di energia. Avicenna (980 – 1037) dichiarò che la velocità della luce è finita e misurabile (e maggiore di quella del suono) e Kamlal-Dnal-Fris (1260 – 1320) spiegò correttamente il fenomeno dell’arcobaleno.
A partire dalla fine del 1500, iniziò il grande dibattito sulla natura della luce: corpuscoli o onde?
Pierre Gassendi (1592–1655), propone una teoria della luce fondata su corpuscoli luminosi, Isaac Newton legge, condivide e scrive, nella sua “Ipotesi sulla luce” pubblicata nel 1675, che la luce è formata da particelle di materia emesse dalla fonte in tutte le direzioni. Il che spiega bene il fenomeno della riflessione, ma non quelli della rifrazione e diffrazione (che accade quando un onda incontra un ostacolo e sembra deviare dalla propria traiettoria). Per spiegarli Newton presuppone l’esistenza di un etere luminifero, una sostanza. cioè, attraverso la quale la luce può propagarsi.
Nel 1660, Robert Hooke (l’abbiamo già incontrato) pubblica una teoria ondulatoria della luce, ripresa da Christian Huygens, nel suo “Trattato sulla luce” del 1690. Huygens postula che la luce nasca come una serie di onde emesse dalla fonte, ma anche lui deve far ricorso all’etere luminifero. Corpuscoli o onde? il dibattito continua. Almeno fino al 1801 quando Thomas Young, inglese, con una serie di esperimenti dimostra che la teoria ondulatoria può spiegare perfettamente i fenomeni di cui abbiamo detto.
Thomas Young! Caro lettore, se ti sono antipatici i geni So-Tutto, preparati. Young impara a leggere a due anni, legge la bibbia intera due volte prima dei cinque. a vent’anni parla l’ebraico, l’arabo, il persiano, il turco e altre sette lingue antiche e moderne. A 28 è professore di filosofia naturale e insegna acustica, medicina, ottica, astronomia, fisica, clima, vita animale e vegetale, idrodinamica ed energia.. (e vi assicuro che ne ho saltata qualcuna).
Mentre è occupato a rivoluzionare la scienza dell’epoca, gli inglesi sconfiggono Napoleone cacciandolo dall’Egitto. Uno degli effetti collaterali è l’arrivo al British Museum della Stele di Rosetta, scoperta dai francesi e misteriosamente finita in mani britanniche (i francesi, almeno ufficialmente, fanno sapere che piuttosto di consegnare agli inglesi le loro scoperte archeologiche le avrebbero distrutte). La stele è un lastra di basalto di 760 chili che riporta un’iscrizione in tre serie di caratteri: geroglifico, demotico e greco. Il geroglifico è la nota scrittura egiziana a base di simboli e disegni, il demotico (lingua del popolo) è una forma corsiva derivata dalla scrittura ieratica a sua volta derivata dai geroglifici.
Il fatto eccezionale è che, per la prima volta, abbiamo un testo ripetuto in caratteri geroglifici e greci, i primi sconosciuti i secondi assolutamente trasparenti per un uomo di buona cultura.
Thomas Young – che naturalmente conosce il greco – non si fa sfuggire l’occasione è cerca di aggiungere al proprio curriculum la decifrazione della Stele di Rosetta.
È necessaria una parentesi: i geroglifici erano noti da secoli in Europa, anche se quasi ogni resto dell’antica civiltà egizia era ormai sepolto sotto la sabbia. In diverse città europee si ergevano obelischi dono di qualche califfo al potente di turno, viaggiatori avevano riportato papiri, mummie e sarcofagi e certe mode filosofico-religiose come il culto di Iside, avevano spinto gli adepti ad adottare simboli e raffigurazioni egiziane. Quello che si era perso nelle nebbie del tempo era la capacità di leggerli. Nel rinascimento Francesco Colonna scrive un opera allegorica in cui appaiono i geroglifici come simboli misteriosi di un sapere perduto; Rabelais, nel 1500, cita i geroglifici in Gargantua e Pantagruel, sempre come esempi di simbologia arcana; Athanasius Kirchner, gesuita, storico e filosofo, pubblica nel 1617, una grammatica egizia, una lista di vocaboli e quindi si lancia nella traduzione di un obelisco egiziano attorno al quale il Bernini sta edificando a Roma la “fontana dei quattro fiumi” a Piazza Navona.
Il problema è che tutte queste traduzioni sono assolutamente fantasiose. In esse i geroglifici vengono considerati come illustrazioni di concetti metaforici. Ad esempio, un’oca con un disco, egizio Geb Ra, fratello di Ra, diventa “l’anima primordiale che aspira all’infinito” o qualcosa del genere.
Questa è la situazione al tempo di Thomas Young, cui va l’indubbio merito di essere stato il primo ad aver tentato una traduzione su basi scientifiche. Infatti riesce a tradurre per intero la parte demotica della stele, ma deve arrendersi di fronte ai geroglifici veri e propri.
Chiedete ad un inglese a chi si deve la traduzione dei geroglifici vi risponderà Thomas Young, chiedetelo ad un francese vi dirà Champollion.
Jean-François Champollion, beh, è un altro di quelli: non è mai andato a scuola ma a 15 anni conosceva una dozzina di lingue e a 16 lesse una dissertazione di fronte all’Accademia di Grenoble sulla lingua copta.
Spetta a lui la vera decifrazione dei geroglifici e la creazione della prima grammatica egizia. Per quanto si fosse basato estesamente sul lavoro di Young, non volle mai ammetterlo e la cosa (assieme a Napoleone) contribuì non poco al cattivo andamento delle relazioni franco-inglesi.
Nel 1828 Champollion, con l’amico e discepolo italiano Ippolito Rosellini, parte per un viaggio in Egitto per verificare le sue teorie sulla lingua egizia. Champollion scrive nel suo diario di viaggio: “…vedemmo già (…) verso sud-est i resti di un enorme vano che conteneva i grandi monumenti di questa capitale..” Si riferisce al tempio di Neith, dea Madre, primordiale ed ermafrodita che creò il mondo con sette parole.
Neith che generò la luce e profetizzò la nascita di un bambino, il sole. “Io sono tutto ciò che è stato, è e sarà, nessun mortale ha mai scoperto il mio velo”. È rappresentata con un telaio poichè Neith è la dea protettrice della tessitura e quindi delle arti domestiche, delle donne e del matrimonio.
A volte è accompagnata dal suo animale simbolo: il ragno.

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